FRAME
Oltre la cornice
SECONDA EDIZIONE DELLA MOSTRA FOTOGRAFICA
“Frame. Oltre la cornice” è un’esposizione fotografica che invita a ripensare il concetto stesso di cornice: non più solo un margine che delimita, ma un varco che apre. La cornice, elemento spesso invisibile ma sempre presente, diventa qui oggetto di riflessione e strumento narrativo.
Attraverso lo sguardo inedito degli studenti coinvolti, la mostra esplora la dualità della cornice come soglia: da un lato confine che definisce e separa, dall’altro finestra che suggerisce, include, svela. In questo gioco di inclusione ed esclusione, ciò che sta dentro dialoga con ciò che resta fuori, in una continua tensione tra il visibile e l’invisibile, tra lo spazio intimo e quello collettivo.
Ogni immagine è un invito a guardare oltre, a interrogarsi su cosa scegliamo di mostrare e cosa, invece, rimane ai margini — invisibile agli altri, forse anche a noi stessi.
“Frame” è così un viaggio visivo e concettuale, dove la fotografia non solo cattura, ma incornicia il mondo, ridefinendone i confini.
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BACI DI GIUDA
Tommaso Zonato
“Baci di Giuda” è un’indagine visiva sull’ambiguità dei gesti che ci uniscono e ci separano, sul
confine fragile tra l’intimità e la maschera, tra la seduzione e la violenza. Il progetto si muove nello
spazio sottile in cui l’affetto si confonde con l’inganno, dove l’apparenza del contatto diventa
residuo.
Ogni immagine è una traccia. Un segno lasciato, non tanto per comunicare, quanto per provocare
una risposta: emotiva, sensoriale, a volte disturbante. La superficie delle opere non è solo da
osservare, ma da immaginare come pelle, come memoria. È un teatro di gesti ripetuti, segnali
lasciati, un archivio di relazioni consumate nel silenzio.
La fisicità diventa linguaggio: impressa, premuta, esposta. Ma ciò che sembra testimonianza
d’amore può rivelarsi un atto di controllo, una firma sul corpo dell’altro, o su quello proprio. Il
titolo del progetto evoca volutamente una contraddizione: il bacio come gesto sacro e sacrilego,
intimo e pubblico, amorevole e traditore.
“Baci di Giuda” mette in discussione la verità dei segni.
Quello che resta, alla fine, è una tensione: tra ciò che desideriamo lasciare e ciò che desideriamo
cancellare.
Un atto d’amore che, forse, non è mai stato davvero innocente.
AGEING
Ilaria Dellerba
Il progetto nasce da un assunto banale quanto veritiero: il nostro corpo è una cornice.
Esso è il contenitore di qualcosa di nascosto e non visibile ad occhi nudi, qualcosa che si sente
ma non si vede.
Dentro di noi nascono e crescono emozioni, come fioriscono i fiori.
Le stesse si sviluppano, maturano e diventano più difficili da interpretare, a volte sfocate ed aride:
ci pervadono.
Seguono però un processo, che se vissuto a pieno ci lascia finalmente liberi.
Alla fine il corpo rimane lo stesso, la stessa cornice di sempre.
In tre scatti:
Youth – le emozioni nascono e sono chiare e vivide.
Maturity – la maturità, le emozioni si fanno più complesse e a volte aride.
Old – l’emozione finisce, ci ha attraversato e ci lascia per ciò che siamo.
AFTER LOVE
Martina Tesanovic
After Love è un progetto composto da auto-ritratti, che nasce dall’analisi personale di alcune esperienze amorose dolorose, analisi che vuole mettere luce, portare direttamente alla vista ciò che resta nell’animo di una persona alla fine di una relazione. Dentro di noi, ogni bella parola che ha accompagnato tale amore, si trasformerà nel tempo in una nostalgica ferita dalla lenta guarigione, tanti bei vocaboli lasceranno il posto a parole pesanti come macigni. E’ diviso in tre atti che ripercorrono tutto il periodo che va dal non rendersi conto della situazione, al dolore, all’introspezione per poi arrivare all’accettazione e al cambiamento: Act I – Love is Blind L’amore è cieco o siamo noi a non voler vedere la verità? L’esatto momento in cui si inizia a prendere consapevolezza di un amore sbagliato. Act II – Pain introspection La percezione del dolore di un amore giunto al termine, la lenta comprensione di tale sofferenza e la sua elaborazione, il bisogno di darsi del tempo. Act III – Acceptance and Change L’uomo e il suo istinto di sopravvivenza lo portano ad una lenta e graduale ripresa, ripresa che porta innanzitutto ad una forma di accettazione. Dopo tale accettazione segue un profondo e permanente cambiamento nel nostro essere, in meglio, in peggio ma pur sempre diversi da ciò che è stato prima. Cicatrici come maestre, ci insegnano a vivere.
ANSIA LIQUIDA
Marco Silvestre
Autoritratto che nasce da una lotta intima e silenziosa contro l’ansia. L’alcol, in questi momenti, non è solo una via di fuga: è una trasformazione, una dissolvenza di me stesso. Bevendo, mi sento scivolare via, divento movimento sfocato, traccia, liquido senza forma. Ma questa fuga non porta mai davvero alla libertà: mi ritrovo presto immobile, vuoto, segregato in ambienti che si fanno grigi, spenti, lontani. Le fotografie raccontano proprio questo ossimoro continuo: la corsa che si spegne nel gelo, il corpo che si agita per poi diventare pietra, l’anima che cerca leggerezza e finisce prigioniera. Sono immagini sospese tra il desiderio di sparire e il peso insostenibile della propria esistenza. È un viaggio dentro una presenza che si fa assenza, dentro una materia che si sfalda, dentro un io che si spegne tentando di sopravvivere.
DORIAN GREY
Giordana Fioravanti
Chi osserva davvero, quando guarda un’immagine? E cosa resta fuori dal campo visivo, nascosto ai margini di ciò che scegliamo di mostrare? Dorian Gray è un’indagine silenziosa sull’identità e sulla finzione, una storia fatta di attese, fughe e immobilità apparente. Tre immagini, come tre atti di un piccolo dramma visivo: una ragazza corre, un volto si moltiplica in uno specchio, due figure restano immobili nel tempo. Dove si trova la verità, in questo ciclo? L’unico scatto a colori sembra vivo, ma lo è davvero? Oppure è solo l’inizio dell’inganno? E la fissità del bianco e nero — rassicurante nella sua estetica senza tempo — è forse una forma più sottile di prigionia? In questo lavoro, l’immagine è specchio e trappola. Le figure sono li, si rincorrono, si osservano, ma senza mai avere contatto. Non c’è certezza su chi sia reale e chi sia solo rappresentazione. E in fondo, importa davvero? La scelta di ambientare tutto in un luogo naturale, indistinto e sospeso, elimina i riferimenti temporali e rafforza l’idea di un mondo interiore, mentale. I volti, i corpi, gli abiti bianchi: tutto si fonde in un’estetica volutamente ambigua. Nulla è spiegato fino in fondo. Nulla è chiuso. Il titolo, Dorian Gray, dove “Gray” del bianco e nero è lo spazio dove si consuma la trasformazione: lì dove bellezza e illusione si confondono, e ogni scelta diventa uno specchio che cristallizza il nostro volto, in eterno. Chi è l’osservatore, chi l’osservato? Chi fugge e chi resta?
EX HUMO
Sara Pinsone
Esiste uno spazio che separa ciò che si mostra da ciò che agisce in silenzio. Nella quotidianità,
molti gesti si compiono senza clamore, mossi da un amore muto.
Sono piccoli atti di generosità che si esprimono nel tempo, nei dettagli, nella ripetizione. Un amore
che costruisce, sostiene, accompagna e che spesso resta invisibile, confuso con l’ordine naturale
delle cose.
Questo progetto fotografico si concentra su una dinamica tanto essenziale quanto spesso data
per scontata. Ed è proprio nella sua discrezione che nasce il bisogno di uno sguardo più
profondo, capace di riconoscere le tracce silenziose di quel legame invisibile che dà forma e
senso alle cose.
Non per svelare, ma per riconoscere. Per restituire uno sguardo a ciò che è presente, anche
quando non lo si vede.
INSOMNIA
Benjamin Pizango
“Paure e rimpianti riecheggiano nell’infinità della coscienza umana,
dando vita a mostruosità più difficili da sradicare.
Tra queste “mostruosità” esiste una creatura chiamata Insonnia, che inerme, giace nelle viscere
del mio subconscio.
Un agglomerarsi di pensieri, nelle vesti di una essere umano, che mi tiene compagnia
nell’oscurità della notte.”
IN-N-OUT
Cosmina Codreanu
Chiudete gli oggi e immaginate di trovarvi immersi in un mondo fatto da detriti e ceneri
vulcaniche, l’aria è rarefatta e manca il respiro.
Aprendo gli occhi e osservandovi attorno si mostra un paesaggio spoglio, dove le nuvole
toccano quasi la terra.
A due passi si scorge un cumulo di neve
Un rifugio, dentro nero e fuori bianco
Gli elementi acqua e terra si fondono perfettamente lasciandosi ammirare
È la magia della natura sovrana
QUELLO CHE RESTA FUORI
Simeone Paolo
Ciò che vediamo è solo ciò che la luce ci permette di vedere. Ma è il buio a decidere cosa resta fuori
Quello che resta fuori è una ricerca visiva sul confine tra ciò che viene mostrato e ciò che viene lasciato
nell’ombra. Attraverso una serie di ritratti in bianco e nero, realizzati con luce radente e ambientazioni
ridotte all’essenziale, il progetto indaga il potere della sottrazione e della soglia visiva.
La cornice, qui, non è intesa come margine fisico, ma come atto di delimitazione simbolica: ciò che
includiamo nello sguardo – e ciò che decidiamo di escludere. La luce scolpisce i volti e i corpi, ma lascia
vaste aree nell’oscurità, in uno spazio dove si condensano ambiguità, desiderio, e possibilità.
Nel buio non c’è assenza, ma resistenza. Resistenza allo svelamento totale, alla trasparenza obbligata,
alla narrazione univoca. La fotografia diventa allora un gesto di rispetto verso l’indicibile, verso quello
che resta fuori dall’immagine ma ne determina il senso.
Questa serie invita l’osservatore a interrogarsi non solo su ciò che vede, ma soprattutto su ciò che non
può vedere, riscoprendo il valore del silenzio visivo come apertura a nuove interpretazioni.
L immagini giocano con il chiaroscuro e l’occultamento, lasciando porzioni del soggetto nell’ombra e
invitando lo spettatore a riempire i vuoti. Questo crea un confine tra ciò che viene rivelato e ciò che
resta nascosto “cornice concettuale”
L’uso del controluce e dei tagli netti di luce guida lo sguardo in modo estremamente consapevole. Non
è lo spettatore a scegliere cosa guardare, ma l’immagine che costruisce il punto di vista, invitando una
riflessione su come l’osservatore si relaziona all’immagine.
Il cappello, i volti parzialmente visibili, le mani – sono tutti elementi-limite, soglie tra l’identità e la
maschera, tra il dentro e il fuori. Queste immagini potrebbero essere lette come “finestre oscure”, da
cui si intravede, più che si osserva, una presenza.
SILENZIO ABITATO
Serena D'Urbano
In Silenzio abitato, le figure umane scompaiono, lasciando dietro di sé solo lo spazio che
occupavano, le ombre che proiettavano, gli oggetti che sfioravano. Queste fotografie non mostrano
volti, ma li evocano; non raccontano storie, ma le suggeriscono. La presenza si rivela nell’assenza e
ciò che manca diventa protagonista.
Ogni immagine è incorniciata da ambienti intimi e familiari: una cucina, una finestra, una stanza.
Spazi quotidiani che normalmente accolgono la vita e che ora si offrono come contenitori vuoti,
custodi silenziosi della memoria. Le figure sono state cancellate: restano solo le impronte del loro
passaggio, un gesto sospeso, una sedia ancora calda, una luce che racconta di qualcuno che c’era o
potrebbe esserci ancora.
Questa serie di immagine riflette sul tempo, sul ricordo e sull’identità. Il vuoto diventa superficie di
proiezione: chi guarda è spinto a riempire l’assenza, a riconoscersi nei margini sfocati di ciò che
non è più visibile.
In sottofondo, si fa strada il concetto del Velo di Maya, ripreso dalla filosofia di Schopenhauer:
l’idea che ciò che percepiamo come realtà sia solo un’illusione, una maschera che ci separa dalla
vera essenza delle cose. Qui, il “velo” non viene solo mostrato, ma letteralmente rimosso. Al posto
dei corpi – ciò che di solito crediamo reale – resta la loro traccia, come un’eco silenzioso. E in
quell’assenza, forse, intravediamo qualcosa di più autentico: la permanenza del ricordo, la fragilità
della presenza e una verità più sottile che rimane quando smettiamo di guardare in superficie; è
invisibile ma percettibile.
In questo silenzio visivo, lo sguardo si fa più attento, più interiore. Cosa rimane, quando tutto il
resto sparisce?
SOUL
Rachele Guzzardi
Nel silenzio tagliente della penombra, emerge un volto a metà: non del tutto luce, non del tutto ombra.
La seconda immagine esplode in un gesto grottesco, ribelle, quasi infantile: un grido muto che sfida la compostezza.
Infine, si ritorna alla quiete, ma con uno sguardo diverso, velato di qualcosa che prima non c’era una consapevolezza.
Tre atti di un’anima che gioca con se stessa, tra introspezione, follia e ritorno.
TIME STANDS STILL
Giorgia Degli Esposti
Siamo in quarantena durante la pandemia mondiale Covid 19 nel maggio 2020.
Tra il vapore e il silenzio, Francesco lascia cadere la maschera che ha indossato tutto il giorno, quella dell’infermiere di reparto. Il camice è stato riposto, i guanti sfilati, la visiera appoggiata in un angolo. Resta
solo lui, in piedi sotto l’acqua, come se ogni goccia potesse portare via il peso delle scelte impossibili, delle parole non dette, delle mani che non ha potuto stringere.
La doccia non è più un gesto quotidiano: è un rituale silenzioso, quasi sacro. Un confine tra ciò che è stato e ciò che ancora resta da affrontare.
Dietro il vetro appannato, affiora l’umanità nascosta. Non ci sono più barriere, né ruoli da interpretare. Solo un corpo stanco, un’anima fragile che si concede un istante di verità. Le mani si distendono sul vetro della doccia, quasi a cercare un sostegno. Il respiro è lento, profondo, come se lottasse contro un’ondata di emozioni trattenute troppo a lungo. In questo spazio sospeso, Francesco si mostra come mai durante il
giorno: non un eroe, ma un essere umano attraversato dal dolore, dalla paura, dalla speranza.
Qui, oltre il vetro, si intravede ciò che nessuno vede: l’impatto invisibile della cura.
E mentre l’acqua continua a scorrere, il tempo sembra fermarsi. Francesco si osserva, o forse si ritrova. È il
volto di chi ha dato tutto senza mai cedere, ma ora, in questo breve momento di solitudine, permette alla stanchezza di farsi sentire.
Eppure, anche nella resa, c’è una forma di rinascita. Perché ogni crollo contiene la possibilità di rialzarsi.
Ogni debolezza accolta è un seme di forza futura.
In quel riflesso sfocato, non c’è solo la fine di una giornata: c’è il coraggio di affrontarne un’altra.
ANOTHER DEATH
Brando Tiberi
Another Death è una riflessione personale sulla morte, distante dalla visione convenzionale. Di
solito, diciamo che una persona è morta quando il cuore smette di battere, o che un luogo è
morto quando non viene più vissuto.
Ma io credo che non sia così semplice.
Ciò che tiene in vita una persona, o un luogo, è la memoria.
Ogni immagine di questo progetto racconta come, pur nell’apparente abbandono, i luoghi
raffigurati non siano davvero morti. Una panchina, un parco, una barca o un campo da basket
continuano a esistere perché ne conserviamo il ricordo, perché sappiamo ancora cosa
rappresentano.
Allo stesso modo, anche l’essere umano non cessa di esistere del tutto quando muore: vive nei
ricordi di chi lo ha amato, nei gesti, negli oggetti, nelle tracce che ha lasciato.
La memoria è ciò che dà continuità all’esistenza, anche oltre la fine.
La morte avviene solo quando tutti si scordano.
25
Andrei Androne
Questo lavoro nasce da una sensazione diffusa e difficile da arginare: quella di trovarsi, a venticinque anni,
nel mezzo di una trasformazione silenziosa.
La dolcezza che si perde – il miele che cola – racconta il compromesso tra ciò che si è
e ciò che si deve diventare. L’immondizia parla di un accumulo invisibile
di cose non dette, di scelte obbligate, di pesi inutili che ci portiamo dietro. L’orologio, infine, è il tempo: non
quello astratto, ma quello che ci guarda mentre scegliamo, ogni giorno, cosa lasciare andare.
È una riflessione personale, ma condivisibile. Uno sguardo incorniciato tra senso di perdita, senso di dovere
e desiderio di restare fedeli a sé stessi.
SPENTI
Viola Beghini
Immersi in una terra arida,cheparla erespira, ma che non ascoltiamo più.
Queste immagini in bianco e nero raccontano la distanza crescente tra noi e il mondo: esseri umani avvolti nella bellezza, ma assenti,scollegati.
Spogliarci non è solo gesto fisico, ma atto di verità. Solo nudi possiamo ricordare di essere parte della terra, non sopra di essa.
ORIZZONTI INVISIBILI
Federica Pica
Cosa resta di un luogo quando tutto è chiuso? Quando le finestre non guardano più fuori, e le porte dimenticano come si apre. Quando l’orizzonte esiste, ma si ritrae.
Orizzonti invisibili nasce da una riflessione sul blocco — mentale, fisico, simbolico — e sull’impossibilità di andare oltre. Due anime — il mare e la città — abitano lo stesso spazio; diverse, ma inseparabili. Due modi di percepire il tempo, la distanza, il silenzio.
Il significato è affidato allo sguardo di chi osserva. Ogni coppia è costruita in modo che le due fotografie si riflettono l’una nell’altra: ciò che appare nella città trova un’eco nel mare, e viceversa. Non come somiglianza, ma come tensione visiva. Porte sbarrate, grate, vetri, barriere. In ogni immagine esiste un confine. Eppure nulla è dichiarato apertamente: l’ostacolo si percepisce, ma non si impone. L’idea è lì, ma va colta tra le linee, nei rimandi, nei silenzi. I luoghi non sono descritti. Non c’è intento documentaristico. Le architetture urbane e quelle marine non si oppongono, ma si intrecciano, come due anime dello stesso spazio, diverse ma inseparabili. L’una non esiste senza l’altra. E questo legame sottile si manifesta nel ritmo stesso delle immagini: negli accostamenti, nei silenzi, nelle pause. Le fotografie non guidano, ma disorientano. Invitano chi guarda a rallentare, a perdersi tra frammenti visivi in cui il paesaggio esterno diventa specchio di uno stato interiore. La distanza, l’attesa, il vuoto sono i veri elementi compositivi.
In una mostra breve, ogni immagine è carica di tensione. Ogni passaggio visivo porta con sé una domanda non formulata. Non si tratta di capire, ma di lasciarsi attraversare. Di accogliere quella sensazione sottile che qualcosa sfugge, ma che proprio per questo resta.
E così, forse, anche ciò che non si vede — l’orizzonte — può diventare visibile. Ma solo a chi è disposto a perdersi prima di capire.
BLU (QUASI TRASPARENTE)
Matteo Bellucci
Polvere e luce;
la dolce poesia
di trattenere il nulla.